venerdì 21 dicembre 2007

Le ultime dall'Antico Egitto

Per tutti gli appassionati di Egittologia, ecco le ultime novità dall'Antico Egitto:

Sembra che gli Egizi sapessero produrre il vetro già nel XIV secolo prima di Cristo. Mentre in precedenza si era portati a pensare che gli Egizi fossero venuti a conoscenza della tecnologia vetraia solo attraverso i contatti con popoli dell'est, provenienti dalla Siria e dalla Palestina (vedi la storia del vetro), adesso c'è chi ipotizza che, invece, essi fossero già capaci di realizzare manufatti in vetro. Come si è giunti a questa conclusione? Facile.
A Paul Nicholson e Caroline Jackson, archeologi rispettivamente delle Università di Cardiff e di Sheffield, è "bastato" costruire una fedele copia di un'antica fornace egizia che, una volta messa in funzione, ha permesso loro di ottenere del vetro dalla sabbia locale.


Purtroppo non è spiegato chiaramente se la loro fornace rispecchiasse quelle originali solo nella struttura e nei materiali utilizzati o se, addirittura, si sia cercato di tenere conto dei parametri fisico-chimici coinvolti (operazione ovviamente molto difficile, se non addirittura impossibile...), sicuramente molto importanti nella realizzazione del materiale vetroso. Pur riservandomi di continuare ad avere qualche dubbio sulla validità di tali esperimenti, non posso che esprimere la mia ammirazione per questa "archeologia creativa"!

In merito a questo argomento, segnalo i seguenti link:

Le fonti della notizia (Galileo, ScienceDaily, The Cardiff University):

http://www.galileonet.it/news/9260/il-vetro-dei-faraoni

http://www.sciencedaily.com/releases/2007/12/071214094026.htm

http://www.cardiff.ac.uk/news/articles


Cambiando argomento, la BBC ha dato la notizia che un gruppo di ricercatori del British Museum ha chiesto ai radiologi dello University London College Hospital di eseguire una TAC su di una mummia egizia. Il "paziente" in questione era un sacerdote morto 3000 anni fa, avvolto in un panno di lino e racchiuso all'interno di uno splendido sarcofago decorato.


L'utilizzo della complessa strumentazione messa a disposizione dall'ospedale ha permesso di osservare l'interno del sarcofago, raccogliendo oltre 6000 immagini radiografiche da diverse angolazioni che, processate dal computer, sono andate a costituire un'immagine tridimensionale dell'oggetto analizzato. Si è così potuto osservare ciò che Nesperennub (questo era il nome del sacerdote egiziano) indossava come corredo funebre. E si è potuto constatare che questi non godeva di ottima salute: al momento della morte aveva ormai pochi denti e un orribile ascesso. Nonostante tutto, i medici non sono riusciti a risalire alle cause della morte, anche se quel buco nel cranio che è stato individuato non fa pensare niente di buono...

Comunque, non si pensi che gli ospedali siano nuovi a pazienti di questo tipo. Già nel gennaio 2005 la mummia del più famoso Tutankhamon (oggi esposta al pubblico, che ne può osservare il volto e i piedi) è stata sottoposta ad un indagine di questo tipo. E addirittura la polizia scientifica, che vive un momento di gloria sulla scia del successo di CSI, si è occupata di dare un volto alla mummia di Harua I. In collaborazione col Museo Egizio di Torino, è stata eseguita una TAC della mummia; dall'immagine acquisita, poi, con tecniche di modellazione digitale e non, si è cercato di risalire alle fattezze del Faraone.


Insomma, abbiamo capito che il modo più veloce per capire dov'è il reparto radiologia in un ospedale è seguire la barella che trasporta il sarcofago!

giovedì 13 dicembre 2007

L'Attak al tempo dei Romani

Un'equipe di ricercatori tedeschi del Rhineland Historical Mueseum di Bonn ha recentemente reso pubblica la notizia di un'importante scoperta. Mentre il gruppo di studiosi, diretto da Frank Willer, stava cercando di prelevare un micro-frammento metallico da un elmo di epoca romana, una delle foglie di alloro (in argento) che decorvano la calotta (in ferro) si è staccata rivelando la presenza di un adesivo al di sotto di essa.
Willer ha dichiarato:

"E' una sensazionale scoperta ed un clamoroso colpo di fortuna che sia stato possibile ritrovare tracce di tale sostanza su di un elmo vecchio di 2000 anni!"

Senza l'azione del calore prodotto dalla micro-sega utilizzata per il campionamento, probabilmente l'adesivo romano starebbe ancora adempiendo al suo compito, mantenendo incollate la foglia argentea al resto dell'elmo.


Tale elmo proveniva dal sito archeologico di Xanten, sulle rive del Reno, ed era stato sepolto su una sponda del letto del fiume fino al momento del ritrovamento. Secondo gli archeologi tedeschi è stato propio questo il motivo della resistenza dell'adesivo. Sepolto in un ambiente povero di ossigeno, l'elmo non è stato sottoposto ad un degrado tale da inficiare le proprietà adesive della colla.

Colla che, secondo i risultati delle analisi di laboratorio, è risultata essere una miscela composta da:

- bitume
- pece o catrame (*)
- sego di bue
- fuliggine
- polvere di mattoni

(*) [Pece e catrame non sono la stessa cosa; la pece è un derivato del catrame, ed è molto più viscosa. Comunque la composizione di massima è pressoché identica.]

Nella letteratura che ci è pervenuta dall'antichità non c'è traccia di una colla come questa, in grado di incollare due metalli fra loro (anche se sembrerebbe che già l'uomo di Neanderthal abbia utilizzato del bitume come adesivo!), e, proprio per questo motivo, la scoperta assumerebbe una particolare importanza.


I ricercatori tedeschi hanno provato a ricreare la miscela adesiva in laboratorio, ma ancora non ci sono riusciti. Ma Willer (sull'onda dell'entusiasmo post-scoperta) ha dichiarato:

"Quando finalmente riusciremo a ricreare la super-colla, questa potrà tranquillamente competere con i suoi equivalenti moderni. D'altra parte, quale degli adesivi odierni riesce ad incollare per 2000 anni?!"

Ma qual è il segreto di questa, per citare Willer, "super-colla"?

Se andiamo ad osservare la composizione chimica della miscela adesiva, possiamo capire quanto essa sia complessa. Questa è costituita principalmente da idrocarburi ad alto peso molecolare, contenuti sia nella pece che nel bitume, entrambi, in ultima analisi, derivanti dall'alterazione spontanea dei petroli naturali venuti in contatto con l'atmosfera. In tale processo di degrado (una polimerizzazione ossidante), i residui del petrolio vengono trasformati principalmente in idrocarburi policiclici aromatici (IPA) altamente condensati. Il potere adesivo (ed impermeabilizzante) della pece è ben noto (si pensi al calafataggio delle navi) e quello del bitume deve essere analogo data l'analogia fra le composizioni chimiche delle due sostanze.
Il sego di bue, a mio avviso, può svolgere la funzione di plastificante e, almeno in parte, di legante filmogeno, data la presenza, anche se relativamente scarsa, di acidi grassi polinsaturi.
Immagino che la fuliggine e, soprattutto, la polvere di mattoni avessero per lo più la funzione di inerti per conferire all'adesivo "peso" e resistenza al ritiro.

Ovviamente, tutto questo non spiega certo come un adesivo del genere abbia potuto tenere incollati fra loro due metalli per 2000 anni...è probabile che il segreto di questa colla sia svanito per sempre insieme al carpentiere romano che la creò...

Mi raccomando, non esitate a dire la vostra sulla mia "analisi chimica" della colla romana!

A questi link potete trovare la notizia originale:

http://news.independent.co.uk/europe/article3226417.ece

http://newton.corriere.it/PrimoPiano/News/2007/12_Dicembre/10/elmo.shtml

E credo che in queste pagine, tratte dal sito del museo in cui lavorano Willer e soci, si parli di questo argomento o di qualcosa di analogo, ma essendo scritto rigorosamente in tedesco, non ci ho capito assolutamente niente!! Per gli esperti conoscitori della lingua teutonica (o per chi volesse coraggiosamente cimentarsi in una traduzione!), inserisco comunque il link:

http://www.rlmb.lvr.de/museum/forschung/roemische+helme.htm

domenica 9 dicembre 2007

Quota MILLE!!!


Brevissimo post per ringraziare tutti quelli che sono passati da questo blog e che hanno reso possibile il raggiungimento di oltre mille visite nel giro di poco più di un mese!!! Risultato oltre ogni nostra aspettativa, visto anche l'alto numero di visitatori unici assoluti (345!!!). Il passaparola funziona, perciò non smettete di farci pubblicità e, soprattutto, continuate a tornare!!! E commentate, che il blog non è solo di chi lo scrive, ma anche di chi lo legge!!
Grazie ancora, a presto!

Il team di Art&Scienza

Chimica per l'arte: il primo (e forse ultimo) appuntamento con la rubrica di recensione dei libri universitari


Il post che mi appresto a scrivere sarà un po' diverso dai precedenti, ma spero che risulti altrettanto piacevole da leggere, oltre che minimamente utile...
Negli ultimi due mesi e poco meno, quelli intercorsi tra la laurea (la mia e quella dei miei due splendidi compagni di avventura) e il concorso di dottorato, ci siamo trovati ad affrontare un ripasso generale in vista del suddetto impegno. Può sembrare una cosa abbastanza semplice (per alcuni forse superflua) essendo noi freschi di studi, ma vi assicuro che ce ne vuole di pazienza, e soprattutto di forza d'animo, per rimettere insieme tutti i pezzi di cinque anni di esami (in totale dovrebbero essere stati una cinquantina, vero Già?). Durante i miei voli transoceanici per il web, in cui mi perdo anche troppo spesso, la curiosità mi aveva spinto, proprio nei giorni precedenti alla laurea, a dare un'occhiata al sito de La Feltrinelli in cerca di novità editoriali; proprio lì avevo scovato l'uscita di una pubblicazione, dal titolo interessante: "Chimica per l'arte". Ma le poche ricerche in libreria erano risultate un classico buco nell'acqua...

Il caso ha voluto che, pochi giorni dopo, nel corso di un incontro con il nostro correlatore, sia venuto fuori proprio il libro in questione, e che la comoda "copia-omaggio" ricevuta dal suddetto prof. sia finita nelle nostre mani. Dopo averla scorsa brevemente ed aver verificato che, a differenza delle librerie cittadine, la biblioteca di Ateneo era dotata di almeno sei copie, due di esse sono state da noi prese in prestito (non senza difficoltà, visto che quando ti laurei diventi una specie di paria dell'Università, senza diritto alla mensa e agli altri servizi, benchè le tasse siano state pagate fino ad Aprile.. ma questa è un'altra storia!). Ognuno di noi tre era quindi dotato di una copia del suddetto libro e ha avuto modo di scorrerla, di leggerla e di ricavare da essa alcune interessanti informazioni; a seguito del dottorato (e della restituzione delle copie in prestito) è venuto quasi spontaneo provare a parlare (non dico recensire che è troppo ufficiale) di questo strumento che ci ha accompagnato durante lo studio e che rientra nella scarna categoria delle pubblicazioni scientifiche nel campo dei "nostri" amati B.C..

Il libro è diviso in sette capitoli, il primo dei quali è una sorta di introduzione sul degrado chimico di un manufatto e sull'indagine nel campo dei Beni Culturali, con particolare attenzione anche all'etica dell'intervento, ma meno ai prinicipi generali delle tecniche diagnostiche, che vengono elencate velocemente, come forse è giusto in un libro che non nasce come trattato di Chimica Analitica. Di seguito troviamo sei capitoli, ciascuno dei quali dedicato ad una tipologia di materiale diverso: i materiali pittorici, i materiali lapidei, le ceramiche, il vetro, metalli e leghe e i materiali cellulosici. In ciascun capitolo è presente una parte di inquadramento storico dell'impiego del materiale (quella relativa ai materiali pittorici è particolarmente ben fatta, anche se non deve essere semplice comprimere 5000 anni e più di storia in dieci pagine!), seguita da un'analisi delle caratteristiche chimico-fisiche del materiale stesso, a cui si somma una sezione più "applicativa", sia per quanto concerne gli interventi di diagnostica e conservazione del materiale originale che per quanto riguarda l'impiego in interventi di restauro.

L'intento con cui è nato questo libro era quello di unificare le conoscenze di esperti del settore [dei tredici (13!) autori ben 11 sono chimici] per fornire ad uno studente, o ad un operatore professionale del settore, una conoscenza a 360° sui materiali con cui si ha solitamente a che fare nel campo della diagnostica e della conservazione dei Beni Culturali; tale intento risulta sicuramente soddisfatto ma, personalmente, ritengo che il titolo non sia azzeccato: di chimica pura non se ne incontra molta, poche formule e poche reazioni. Forse sarebbe stato più corretto inserire nel titolo la parola "materiali", in maniera tale da mettere in evidenza che il punto nevralgico della pubblicazione sono gli oggetti, e di conseguenza la loro natura, e non la "Chimica" pura. Forse non è chiaro, e forse i miei due colleghi non saranno d'accordo, ma secondo me un titolo come "La chimica dei materiali dell'arte" sarebbe stato perfetto!

A parte la disquisizione sull'appropriatezza del titolo o meno, un difetto tipico di pubblicazioni a più mani [lo sottolineo nuovamente, in questo caso si tratta di tredici autori!] è quello di risultare parecchio eterogeneo a seconda delle sezioni; questo chiaramente infastidisce il lettore, che si trova ad avere a che fare con "linguaggi" diversi passando da un capitolo all'altro. Da segnalare anche la presenza di alcuni refusi, in particolare un bizzarro copia-incolla errato nella parte relativa al SEM, al capitolo 1. Come indicato nella seconda di copertina, il libro è stato realizzato in poco tempo e la presenza di errori è comune a molti testi; credo che in una eventuale seconda edizione essi saranno corretti, grazie anche ai lettori accorti che possono segnalarli sul sito della casa editrice (nella sezione "Segnalazione errori"). Online è disponibile anche il pdf dell'indice.

Finora mi sono limitata ad elencare i nei di Chimica per l'arte, e come abbiamo visto non sono molti e sono, per lo più, individuabili e sopportabili. Il grande pregio, invece, è quello di aver raccolto in poco più di cinquecento pagine il contenuto di almeno sei o sette esami (volendola vedere in termini molto "studenteschi"); la possibilità di ritrovare, a distanza di poche pagine, tante informazioni appartenenti ad ambiti diversi (anche se sempre osservate dal punto di vista chimico, che, in alcuni ambiti, come per i materiali lapidei, è un po' limitativo) è sicuramente un grande vantaggio per uno studente. A seconda poi delle necessità, in alcuni casi le risposte fornite da Chimica per l'arte dovranno essere integrate con quelle reperibili in testi più specifici, poichè, è evidente, un tipo di libro così fatto può risultare, talvolta, troppo poco approfondito (non è il caso della parte relativa ai metalli e alle leghe, che, oltre ad essere molto complicata, è anche molto completa).

In conclusione, se dovessi dare un voto (universitario, si intende, quindi in trentesimi) il candidato Chimica per l'arte, edito da Zanichelli, prenderebbe un ventisette, ottenuto dalla media tra il voto per l'intento (29) e quello per la riuscita (25). E per una volta mi sento professoressa anche io!!! E credo proprio che, nella piccola biblioteca che Michele, Giacomo ed io mettermo su nella nostra stanza da dottorandi (sperando di averne una), una copia di Chimica per l'arte non mancherà - chiaramente quella "rubata" al nostro correlatore della tesi!!!


CHIMICA PER L'ARTE di Campanella, Casoli, Colombini, Marini Bettolo, Matteini, Migneco, Montenero, Nodari, Piccioli, Plossi Zappalà, Portalone, Russo, Sammarino, ed. Zanichelli, 2007, 42 €.

mercoledì 5 dicembre 2007

Per chi volesse emigrare...

Mi sembra una buona idea segnalare un paio di possibilità interessanti per chi fosse propenso ad emigrare in cerca di fortuna all'estero (anche solo per qualche tempo...!).

Esistono sicuramente diverse possibilità; fra queste ne evidenzio un paio:

1) Il progetto EPISCON (European PhD in Science for Conservation).

2) Una intership (12 o 24 mesi) presso l'ICON (Institute of Conservation) londinese.

Il progetto EPISCON nasce grazie ai finanziamenti del progetto Marie Curie (a sua volta facente parte del CORDIS, il Servizio Comunitario di Informazione in Materia di Ricerca e Sviluppo) con il preciso intento di formare "la prima generazione di veri conservation-scientist in Europa", come si può leggere nella homepage del progetto stesso, ospitata all'interno del sito dell'Università di Bologna, coordinatore del PhD. Oltre all'Università di Bologna, partecipano al progetto diversi partner, appartenenti a diversi paesi europei (Ungheria, Romania, Spagna, Olanda, Danimarca, Grecia), l'Università di Perugia e l'ICVbc (Istituto per la Conservazione e la Valorizzazione dei Beni Culturali, facente parte del CNR). Come collaboratori esterni, invece, partecipano anche ICR e OPD (insomma, non rimane fuori proprio nessuno!). Ora, se avete perso il filo del discorso, non preoccupatevi: è normale! Anzi, più ci si addentra nei siti di questi enti e progetti, più si tende a perdere l'orientamento...!


Comunque, per riassumere in soldoni quello di cui si sta parlando, il progetto EPISCON offre a 16 giovani laureati la possibilità di svolgere 6 mesi di pre-corsi intensivi presso il campus dell'Università di Bologna-Ravenna ed i seguenti 2 anni e mezzo presso uno degli enti che partecipano al progetto stesso. Se ho capito bene, inoltre, verrà effettuato un tentativo di far riconoscere la partecipazione al progetto come un dottorato di ricerca valido nel paese di provenienza del soggetto in questione. Per tutte le ulteriori informazioni, vi rimando al (confuso) sito del progetto:


La seconda segnalazione, come ho già detto, riguarda l'Institute of Conservation inglese (con sede nel cuore di Londra, presso il London Bridge!). Purtroppo, in questo caso la possibilità di presentare una domanda di ammissione scadeva il 30 Novembre, quindi mi scuso per non averne parlato prima, ma non potendo escludere la possibilità che l'anno prossimo l'Istituto proponga nuovamente tale iniziativa, ne parlo comunque! Vediamo di cosa si tratta.

L'ICON offriva la possibilità di eseguire uno stage di 12 mesi in Scienza della Conservazione, pagato 14500 Sterline (20718 Euro, cioè più di 1700 Euro al mese, alla facciaccia dei dottorandi italiani!) tramite fondi stanziati dal Tate Britain, presso lo stesso Tate. Inoltre, accennava alla possibilità di prolungare lo stage di 12 ulteriori mesi in caso di presenza di fondi sufficienti. Anche in questo caso è davvero poco immediato capire quali requisiti siano necessari per fare domanda e che cosa si vada, poi, a fare all'atto pratico. A chi è interessato, consiglio vivamente di addentrarsi nella giungla virtuale del sito dell'ICON:


Un'ultima cosa che mi sembra di aver capito rovistando fra i meandri di quel sito è questa: l'ICON offre anche la possibilità di svolgere uno stage più rivolto al restauro pratico che alla scienza della conservazione, quindi se qualcuno fosse più interessato a questo aspetto, gli consiglio di studiarsi bene queste pagine. Sembra infatti, che grazie a 28 pences per ogni Sterlina giocata alla Lotteria inglese, l'Heritage Lottery Fund abbia raccolto 1 milione di Sterline da devolvere all'ICON affinchè, da qui al 2009, paghi delle interships per la formazione di giovani conservatori (fino a 17 all'anno).

Insomma, tenete gli occhi bene aperti, perché là fuori di opportunità ce ne sono...

giovedì 29 novembre 2007

AIEDAbc!

Forse molti di voi già conoscono i ragazzi romani che hanno dato vita all'Associazione Italiana Esperti in Diagnostica Applicata ai Beni Culturali. Per chi non ne sapesse niente, ecco un post che cerca di chiarire di chi e di cosa si tratti.

L'AIEDAbc è nata nell'Aprile del 2005 grazie all'idea e all'impegno di un gruppo di neo-laureati in Scienze Applicate ai Beni Culturali all'Università "La Sapienza" di Roma. Grazie allo stimolo e alla collaborazione di alcuni docenti, i giovani intraprendenti hanno creato questa realtà con l'intento di:

"Comprendere i principi, i metodi e le tecniche della Diagnostica applicata ai Beni Culturali, disciplinarla e svilupparla, nonché divulgare ed educare alla comprensione della sua importanza e delle sue potenzialità, per una migliore conservazione e valorizzazione del nostro cospicuo patrimonio culturale. Tutto ciò si racchiude nella necessità di una specifica figura professionale, già definita in ambito estero con il titolo di conservation scientist [...]"

Nonostante la fatica e l'impegno necessari per portare avanti un'iniziativa di questo tipo, i ragazzi dell'AIEDAbc hanno creato un sito internet (che, proprio in questi giorni si rinnova nell'aspetto grafico e nei contenuti) e sono riusciti a coinvolgere molti altri studenti e laureati in Classe 41 e 12s nelle attività dell'associazione. In particolare, oltre alla Sezione Principale di Roma, sono state aperte altre tre sezioni regionali (a Ravenna, Otricoli e Torino).

Fra le attività principali dell'AIEDAbc vi sono:

- La promozione di eventi di divulgazione e di studio nel campo delle scienze applicate alla conservazione dei beni culturali

- Lo studio della situazione legislativa in merito alle figure professionali nel campo della conservazione dei beni culturali

- L'impegno per il riconoscimento dei laureati in Classe 41 e 12s come figura professionale esistente ed utile

- L'individuazione delle molti contraddizioni presenti nei regolamenti universitari che chiariscono le competenze e gli sbocchi professionali degli studenti

- La creazione di un punto di riferimento e di incontro per i lauerati in Classe 41 e 12s ed i professionisti operanti nel campo della diagnostica applicata alla conservazione dei beni culturali



In particolare vi segnalo un paio di esempi significativi dell'attività dell'associazione:

E' stato da poco realizzato un Convegno per chiarire gli sbocchi occupazionali per gli studenti iscritti a corsi di laurea in Classe 41 e 12s. E' stata inoltre creata una webzine dedicata alla scienza applicata alla conservazione dei beni culturali (in cui potete trovare anche un articolo realizzato condensando le tesi triennali di 2/3 del team di Art&Scienza!).

Detto questo, non mi resta che lasciarvi con l'esortazione a collaborare attivamente con l'AIEDAbc, che può rappresentare davvero un'importante punto di riferimento e di incontro per tutti gli studenti e i laureati in Classe 41 e 12s!

P.S.

1) Tanto per precisare: con la nuova riforma universitaria cambieranno anche tutte le classi di laurea. Quindi, la Classe 41 diventerà L43, mentre la 12s diventerà LM11... Non oso pensare al caos che questo creerà nelle teste, già confuse, degli impiegati ministeriali quando si troveranno a dover mettere a posto tutti i tasselli della riforma...


2) C'è un appunto che vorrei fare ai soci fondatori e ai rappresentanti dell'AIEDAbc (e che ho già rivolto personalmente ad Andrea Macchia, presidente dell'associazione): secondo me, chi si avvicina all'AIEDAbc sente ritornare con troppa forza questo termine "diagnostica" (a cominciare dal nome dell'associazione), che trovo, per così dire, un po' limitante. Forse, invece, sarebbe il caso di cercare di contribuire a creare una consapevolezza più matura nei confronti di una figura come quella del conservation scientist (per altro, giustamente citata nell'incipit del discorso che chiarifica gli intenti dell'associazione)...Credo che sia giunto il tempo che i laureati in Classe 41 e 12s (o L43 e LM11!) si sentano più "conservation scientists" che "tecnici per la diagnostica"!

Si badi beni che, comunque, la sostanza non cambia...l'impegno e l'attività dell'AIEDAbc rimangono encomiabili!

sabato 24 novembre 2007

"Occhio" alla sciamana...!

Chi di voi non aveva mai sentito parlare del sito archeologico di Shahr-i Sokhta? Dal canto mio, ne ho scoperto l'esistenza solo alcune ore fa... "Shahr-i Sokta" è un termine persiano che significa"Città Bruciata" e nessun nome poteva essere più azzeccato per questa antica città iraniana, risalente all'Età del Bronzo, che ha avuto bisogno di essere data alle fiamme per ben tre volte, prima che i suoi abitanti si decidessero ad abbandonarla definitivamente 2100 anni prima della nascita di Cristo.


Ri-scoperta nel 1967 (grazie anche alle spedizioni dell'esploratore ed orientalista Giuseppe Tucci), l'antica città è divenuta dagli anni '60 un prolifico sito archeologico in cui squadre di ricercatori iraniani ed italiani hanno scoperto diversi importanti reperti (fra questi, il "primo backgammon" e degli antichissimi dadi - è evidente che gli abitanti di Shahr-i Sokhta sapevano come ingannare l'attesa fra un incendio e l'altro...).

Ma la scoperta più importante risale a poco meno di un anno fa, quando la squadra di archeologi iraniani ed italiani diretta da M. Sajjadi, dell'Iranian Centre for Archological Research (ICAR), scavando fra le tombe dell'enorme necropoli, ha riportato alla luce lo scheletro di una donna recante un'antichissima protesi oculare. Dato che la donna, secondo i calcoli degli studiosi, dovrebbe essere stata sepolta intorno ai 5000 anni fa, il reperto potrebbe corrispondere al più antico ritrovamento di occhio posticcio attualmente conosciuto.

La protesi è stata prontamente affidata alle mani del prof. Lorenzo Costantini, esperto del Centro di Bioarcheologia dell'Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO), che l'ha sottoposta ad una campagna di indagini che hanno permesso di risalire alla composizione dell'oggetto. Lo stesso Costantini parla dei risultati dell'analisi (all'interno di un articolo pubblicato sul sito di Repubblica):

"Abbiamo stabilito che si tratta di una mezza sfera dal diametro di circa tre centimetri e dal raggio di 1,5 [N.d.A.: si noti l'importante precisazione...!] e costruita probabilmente con pasta di bitume. Esternamente c'è un motivo inciso: un piccolo cerchio centrale dal quale partono otto linee a raggiera. Ci sono poi due fori in cui passava una cordicella che consentiva di portarla avvolgendola intorno alla testa come fosse una benda da pirata. Ci sono tracce di lamina d'oro sottilissima, che forma le venature dell'occhio."

Stando a quanto ipotizzato dagli studiosi, quindi, il finto occhio non doveva avere il compito di sostituire quello perduto, ma, probabilmente, aveva una valenza rituale, legata al fatto che la donna era quasi certamente una sciamana. Forse la protesi rappresentava "l'energia del Creatore", doveva essere una sorta di fonte di luce; forse, addirittura avrebbe dovuto infondere un timore reverenziale (anche se, stando al fatto che questa donna era alta 1,82 m, non credo avesse bisogno di troppi orpelli per infondere del buon timore anche nel più duro dei guerrieri...!).

Quello che purtroppo non sono riuscito a trovare da nessuna parte, e che sarebbe stato senz'altro molto interessante per tutti i lettori di Art&Scienza, è quali tecniche di indagine abbia utilizzato il team di Costantini per giungere alle conclusioni qui accennate. Voglio quindi lasciarvi con un invito ad aprire uno scambio di opinioni che, spero, possa risultare interessante:

"Se Sajjadi si fosse rivolto a voi, supponendo di avere la possibilità di svolgere qualunque tipo di analisi, che tipo di tecniche di indagine avreste utilizzato per caratterizzare la protesi?"

Attendo commenti!

giovedì 22 novembre 2007

Dottorandi in Scienza per la Conservazione dei Beni Culturali!!!

Il Team di Art&ScienzA è felice di comunicare la promozione di tutti i suoi membri (Mich & Giac & Gio) allo status di dottorando in Scienza per la Conservazione dei Beni Culturali. A tutti gli appassionati frequentatori di questo blog che volessero avere maggiori informazioni su questo dottorato, lascio i link della pagina del sito dell'Università di Firenze da cui è possibile scaricare il bando
(http://www4.unifi.it/studenti/CMpro-v-p-2294.html)
e del sito ufficiale del dottorato
(http://www.chim.unifi.it/u/castel/dottoratoBC/).
Da questo momento, quindi, ci riattiveremo (anche se personalmente non mi ero attivato molto...) nella scrittura di post utili e interessanti (spero!).

lunedì 19 novembre 2007

Latitanza...

Tutto il team di Art&Scienza è al momento impegnati nel faticoso esame di dottorato in Scienza per la Conservazione dei Beni Culturali.. Per questo motivo, il prossimo post verrà pubblicato sicuramente dopo giovedì, sperando di avere solo buone notizie sul nostro futuro!!
Abbiate pazienza, ma dobbiamo studiare...

venerdì 16 novembre 2007

E' nata la Wikiversità! Diventa uno studente wikiversitario!

Innanzitutto, voglio ringraziare a nome di tutto il team di Art&Scienza tutti coloro che hanno trovato il tempo e la voglia per visitare il nostro blog. E, in particolare, coloro che si sono spinti oltre ed hanno lasciato un commento! Spero che questo sia solo l'inizio... se avete qualcosa da dire, da consigliare, da segnalare o da obiettare, mi raccomando, fatevi avanti!!

E proprio da una segnalazione, che ci è stata fatta da Francesco De Virgilio, nasce lo spunto per questo post. Ci è stato infatti consigliato di fare un po' di pubblicità ad un'iniziativa di cui, francamente, non eravamo al corrente: il portale Wikiversità! E, per rendere più visibile l'informazione, abbiamo deciso di iniziare col dedicarle un post...



Wikiversità è un portale parallelo a quello di Wikipedia, creato dalla Wikimedia Foundation, in cui gli studenti universitari possono diventare wikiversitari e condividere appunti, informazioni e conoscenze. La homepage della versione italiana di Wikiversità riporta testualmente:

"Wikiversità è una nuova idea per creare una comunità di apprendimento basata su wiki. Puoi partecipare ai corsi online attivati o crearne uno nuovo. Guarda la pagina di discussione per proporre nuovi progetti. Nel portale della comunità trovi le guide tecniche. Collabora anche tu a realizzare un'università virtuale per tutti!"

Insomma l'idea è molto interessante, anche se in una fase ancora soltanto abbozzata. In particolare, ci è stata segnalata, l'esistenza di un "corso wikiversitario" in Scienza e Tecnologia per la Diagnostica e la Conservazione dei Beni Culturali, creato da poco dallo stesso Francesco De Virgilio. Tale risorsa, se ben sfruttata, può diventare davvero un ottimo strumento per creare un ulteriore contatto e luogo di scambio per gli studenti dei corsi in Classe 41 e 12S (troppo spesso convinti di essere i soli al mondo a dedicarsi a quello strano calderone di materie così diverse fra loro...! Succede spesso di perdere l'orientamento, quando si passa, che so, dalla fisica al restauro archeologico - sono materie che si trovano su galassie diverse!)!

La sezione dedicata alla scienza della conservazione dei beni culturali è ancora in una fase larvale ed è per questo che vi invito a collaborare a questa interessante iniziativa! Diventate studenti wikiversitari per condividere esperienza e conoscenze attraverso il portale Wikiversità!


mercoledì 14 novembre 2007

Quando il lessico del restauro è alla portata di un click..

Credo sia esperienza comune quella di trovarsi a scrivere una relazione al computer e di essere improvvisamente colti da un dubbio oppure da un momentaneo vuoto di memoria.. O ancora, mentre state studiando, quante volte vi capita di incontrare un parola tecnica che non vi dice nulla, o di cui non ricordate il significato?! Non so voi, ma a me capita, e anche abbastanza spesso-lo so, nessuno è perfetto!! I nostri genitori sarebbero ricorsi ad un'enciclopedia, o al vocabolario, o si sarebbero persi in libri e libri alla ricerca del luogo giusto per ritrovare l'informazione perduta; con questo non voglio dire che i libri siano inutili, ma solo che certe volte, stando attenti a dove si vanno a cercare certe notizie, anche dalla rete si possono ricavare informazioni utili e magari in maniera più veloce di quanto non si possa fare consultando un'intera biblioteca (e spero che la vostra sia ben fornita!).

I miei due compari ed io amiamo in particolare (e con noi milioni di persone in Italia, e forse miliardi in tutto il mondo) Wiki, fedele compagna di tante relazioni/tesine/tesi. Il nostro sogno nel cassetto è quello di realizzare un "portale" sulla scienza dei beni culturali, e forse, un giorno, quando avremo un po' di tempo, riusciremo a mettere a disposizione di tutti la nostra "conoscenza"...

Il post, che sta un po' degenerando, è nato per segnalarvi un link interessante, che potrà tornare utile quando vi imbatterete nel, talvolta, ostico lessico del restauro:

http://www.firenzerestauro.it/portale/progetto.asp?id=227

Si tratta della versione telematica di un libro, scritto da Cristina Giannini e Roberta Roani nel 2000 per una casa editrice molto attiva nel campo dei Beni Culturali, la Nardini Editore; potrete trovarci tantissime definizioni, da craquelures a parchettatura, da abezzo a verdaccio.. se non conoscete i termini che ho appena indicato, beh, vi consiglio vivamente di farci un salto!!

domenica 11 novembre 2007

"Ori, argenti e gemme": in mostra i restauri dell'Opificio

Diciamo la verità: ostensori e calici (ma anche altri "ori" in senso lato) non fanno certo parte dei più blasonati oggetti d'arte e, ad esser sinceri, non incontrano, il più delle volte, il mio gusto; ciò nonostante, spinta dal sottotitolo della mostra che recitava "Restauri dell'Opificio delle Pietre Dure" ho rotto gli indugi e mi sono concessa un'oretta tra i luccichii di calici, pissidi* e turiboli**. E devo dire che, come spesso capita quando si parte privi di grandi attese, sono rimasta piacevolmente e sorprendentemente soddisfatta da questa breve mostra, ben fatta e decisamente interessante. Clarice Innocenti, curatrice della mostra e responsabile dell'Opificio delle Pietre Dure, è riuscita, in uno spazio abbastanza limitato (cinque sale al piano terra di Palazzo Medici Riccardi) , a condensare anni di lavoro e di esperienza accumulata dallo stesso OPD sul restauro dei materiali "preziosi". La figura del resturatore di oreficerie è nata recentemente, andando ad affiancarsi a quella di gioiellieri, e talvolta FABBRI, che spesso si vedevano affidati immensi capolavori, senza avere, non tanto la capacità (in certi casi neanche quella!), ma soprattutto l'approccio giusto per metter mano ad opere così delicate e meccanicamente complicate come possono essere i calici e gli ostensori. Le operazioni di riparazione (termine che indica interventi su materiali di uso quotidiano, come sono gli oggetti sacri) hanno avuto, il più delle volte, effetti deturpanti e/o irreversibili, peggiori di quelli dovuti all'usura e al tempo.

Il restauro è invece una operazione che tiene conto della natura del manufatto, e viene condotta scientificamente, in maniera oculata, dopo aver studiato a fondo le caratteristiche dell'opera su cui si mettono le mani.
Come ben spiegato dai numerosi pannelli che accolgono il visitatore, il restauro di un oggetto di oreficeria consta di quattro fasi: lo smontaggio (da operare esclusivamente se necessario e non alla ricerca di eventuali scomparti segreti o per comprendere i meccanismi costruttivi); la pulitura (spesso operata a mezzo laser); il consolidamento e l'integrazione (quest'ultima solo se necessaria alla fruizione dell'opera e da non usarsi in maniera troppo estesa); la protezione delle superfici (oculatamente valutata) ed il rimontaggio eventuale.

Quattro sono le fasi di intervento e quattro sono le sale da attraversare nel corso della mostra; scelta non casuale vista la natura degli oggetti che si presentano al visitatore: nella prima sezione troviamo due opere in attesa di restauro, le cui condizioni conservative sembrano buone, ma che, ad un esame scrupolo del restuaratore (ma anche di un osservatore ben indirizzato) presentano sconnessioni e tracce di interventi grossolani. La seconda contiene quattro opere in corso di restauro, scelte per esemplificare le fasi di smontaggio e di integrazione; nella terza sala sono presentate alcune porzioni dell'Altare Argenteo del Battistero di Firenze in corso di pulitura, dove le due zone (talquale e pulita) dimostrano in maniera lampante come l'intervento possa restituirle a "nuova vita". Infine, nella sala IV, il risultato del certosino lavoro dei restauratori dell'OPD: otto capolavori su cui l'intervento è stato ultimato, che mettono in luce cosa si possa ottenere quando ad operare sono dei rigorosi professionisti, affiancati dall'equipe scientifica dello stesso OPD (come non citare anche i "nostri" omologhi conservation-scientists!). A questo proposito riportiamo il commento sulla mostra di Cristina Acidini, sovrintendente del Polo Museale Fiorentino: "Il restauro di ognuna di esse [le quindici opere esposte nella mostra, NdA] [...] rappresenta un percorso ogni volta diverso, messo a punto attraverso il confronto fra le figure professionali attive al suo interno, storiche, tecniche, scientifiche".

Una resturatrice dell'OPD all'opera su uno degli oggetti in mostra

Insomma, una mostra decisamente ben pensata e ben organizzata, che fornisce anche ai non addetti ai lavori un buon esempio di quello che è il mondo del restauro, pur occupandosi di materiali poco studiati, per quanto molto diffusi. Segnalo in particolare la brillante idea di porre, accanto ad ogni teca, un piccolo schermo LCD in cui scorrono spiegazioni (sia in inglese che in italiano) o foto di particolari dell'oggetto, in maniera tale da aiutare il visitatore a cogliere ogni minimo particolare ed ogni più piccolo dettaglio dell'opera davanti alla quale si trova. Lo ripeto: davvero decisamente brillante!!

La mostra resterà aperta fino al 30 gennaio, il biglietto costa 5 euro (3,5 € quello ridotto) - si tratta di un prezzo decisamente abbordabile, soprattutto se si considera che il biglietto consente anche di visitare il percorso museale di Palazzo Medici Riccardi con la cappella di Benozzo Gozzoli, la Sala di Luca Giordano e il Museo dei Marmi.

Il mio consiglio spassionato è di farci un salto, magari in una pausa dal frenetico shopping natalizio da cui difficilmente si scampa!


Pisside*: vaso nel quale si conservano le ostie consacrate.
Turibolo**: recipiente, sospeso a tre catenelle, nel quale si pone l'incenso, facendolo bruciare su di un piccolo braciere contenuto al suo interno.

PS: un ringraziamento a Clà per avermi accompagnato e aver pazientemente atteso che prendessi appunti e archiviassi mentalmente tutte le informazioni per scrivere questo post!!

sabato 10 novembre 2007

Copiare o non copiare...? Questo è il problema! Ce lo spiega Antonio Paolucci...

Navigando per il web, mi sono imbattuto in un'intervista rilasciata a Rai Educational da Antonio Paolucci, ex soprintendente per il Polo Museale di Firenze e attualmente uno dei quattro esperti incaricati dal Ministro Francesco Rutelli di affiancare Salvatore Settis nel coordinare i lavori del Consiglio Superiore per i Beni Culturali e Paesaggistici.

Antonio Paolucci


Le domande, scelte fra le migliori inviate dagli ascoltatori, hanno permesso a Paolucci di gettare diversi spunti molto interessanti su alcune delle questioni chiave della cultura del restauro. Per chi fosse interessato all'intervista integrale, ecco il link a cui potete trovarla:

http://www.educational.rai.it/mat/ss/restauro1.asp

Le risposte del professore hanno toccato svariati argomenti, fra cui la questione della copia dell'opera d'arte, trattata in modo completamente differente dalla cultura Occidentale rispetto a quella Orientale.

Di seguito, ho cercato di riassumere ed adattare in forma di breve discorso alcune delle risposte date da Paolucci in merito a questo argomento per cercare di chiarire quale sia il suo pensiero:

"Non c’è dubbio che la cultura del restauro sia un fenomeno “occidentale”. Già in un Oriente culturalmente vicino a noi, come può essere la Russia, si trovano frequentemente cupole del ‘600 che, se cadono in rovina, vengono semplicemente ricostruite ex novo. Nell'Estremo Oriente, in Cina o in Giappone, è frequente trovare addirittura delle riproduzioni, assolutamente fedeli all'originale, di templi o di palazzi o di edifici che risalgono alla dinastia Ming o Chang, di dieci o quindici secoli fa. Ed è perfettamente noto che quando tali monumenti cadevano in rovina venivano semplicemente ricostruiti esattamente com'erano.

Quindi per l'Oriente conta molto di più la conservazione dell'immagine (del concetto, dell’idea), mentre per noi occidentali - e questo fa parte del nostro individualismo umanistico - conta invece, la cosa in sé, l’oggetto materico. C’è proprio una diversa concezione dell’opera d’arte che trova le sue ragioni profonde in un discorso di tipo antropologico, e, proprio per questo, è impossibile stabilire quale impostazione sia giusta o sbagliata.

A differenza dei Giapponesi o dei Cinesi, noi tollereremmo molto male l'idea di una città popolata da copie di monumenti: l'idea è fastidiosa perché offende il nostro senso della storia. È possibile abitare in una città in cui tutte le sculture visibili, che dovrebbero essere antiche, sono finte? Va bene per il Marco Aurelio, di cui è stato necessario esporre una copia -, ma cosa accadrebbe se tutte le sculture di Roma, la Fontana di Trevi, la fontana di Piazza di Spagna, i cavalli del Quirinale e lo stesso Colosseo fossero una copia? Non avremmo l'impressione di vivere in una specie di Disneyland? Proprio per tale motivo si fanno delle copie solo quando non si possono non farle. Io ho combattuto una dura e difficile battaglia, rischiando di persona, per far sì che il Perseo di Benvenuto Cellini in bronzo rimanesse nella Loggia dell'Orcagna. Perché poteva rimanerci, perché con opportuni controlli, con verifiche ogni tanto, con provvedimenti efficaci poteva vivere e vivere bene pur rimanendo all'aperto.



Però io stesso sono costretto a rimuovere dalla Loggia dell'Orcagna qui a Firenze in Piazza della Signoria il Ratto delle Sabine di Giambologna, una delle sculture più famose del mondo, perché mi sono reso conto che se sta lì altri venti, trent'anni, probabilmente non ci sarà più: la rovina sarà a quel punto irreversibile. E allora ecco che il restauratore, come il medico, deve sapere che non c'è la malattia, ma c'è il malato; che esistono tante diagnosi quanti sono i malati, e tante terapie quante sono le diagnosi. Questo è l'aspetto pragmatico, "opportunistico", del nostro mestiere.

Io vorrei una città dove le sculture siano tutte al loro posto, siano quelle originali. Dove l'atmosfera sia 'affidabile', nel senso che l'inquinamento non sia eccessivo, le piogge non siano acide. Dove i cittadini e i turisti si comportino civilmente, senza atti di vandalismo. Dove, come è sempre stato nelle città italiane, uno possa incontrare il Marco Aurelio, Giambologna e Donatello come se incontrasse dei vecchi amici, quasi senza farci caso, tanto fanno parte della sua vita, del paesaggio, del contesto urbano. Questa è la città d'arte che io voglio. Ma mi rendo conto che oggi mantenerla è molto difficile."


Devo ammettere che il tema che mi sta molto a cuore e, sulla questione delle copie, ho una mia personale idea, che concorda quasi del tutto con il pensiero di Paolucci, ma tende ad estremizzarne le conclusioni.

Se Paolucci afferma che le copie "si fanno solo quando è impossibile non farle", pena la perdita irrimediabile dell'opera, io penso (e so che quest'idea risulterà impopolare) che sia meglio perdere l'opera che esporre una copia (un falso!) e decontestualizzare l'originale. L'opera d'arte deve essere vissuta dalla gente. Un'opera come il David di Michelangelo è stata posta davanti al Palazzo della Signoria con un preciso intento comunicativo. Esporre in suo luogo una copia, anche se per per garantire la conservazione del capolavoro, è una negazione, o, almeno, un'alterazione di quell'intento.
E' come (con le dovute relativizzazioni) se un fan degli U2 andasse ad assistere al concerto della sua band del cuore e sul palco trovasse, invece degli U2, un'ottima cover band (identica in tutto e per tutto agli U2), assoldata dal manager della band irlandese, il quale temeva che, data la temperatura rigida, Bono Vox potesse prendersi un bel mal di gola. Il manager avrebbe dovuto invece accettare il fatto che Bono, per esprimere la sua arte, potesse anche logorarsi l'ugola. (Magari dovrebbe smetterla di organizzare concerti a nord del circolo polare artico...!)

E nello stesso modo, il soprintendente di turno dovrebbe rassegnarsi al fatto che il David, per comunicare il messaggio michelangiolesco, un giorno debba essere necessariamente ridotto in polvere dall'acido solforico presente in atmosfera. E' una questione di entropia e non può farci nulla. Al limite, può cercare di rallentare questo processo, lottando (come dice giustamente Paolucci) affinchè i livelli di inquinamento urbano rientrino nella norma e monitorando le condizioni chimico-fisiche del micro-ambiente in cui si trova l'opera. E, utilizzando una filosofia conservativa di vena orientale, dovrebbe cercare di conservare "l'idea" dell'opera (sotto forma di documentazione di tutti i tipi; fotografica, scientifica, storiografica, etc.). Perché un giorno quell'opera, come tutte le cose su questa terra, non ci sarà più.

E se proprio si vuole ingabbiare in un museo una statua pensata per affrontare le intemperie dell'aria aperta, allora che ci venga messa la copia, cosicchè, nel museo, i visitatori possano ricordare come l'opera doveva apparire da nuova, mentre la gente per strada possa sentire l'animo dell'artista attraverso i resti della sua opera originale!

giovedì 8 novembre 2007

Quando il laser pulisce..."a fondo"...

Forse molti di voi saranno sorpresi quanto lo sono stato io nello scoprire che in diversi fondali italiani si possono trovare dei veri e propri musei subacquei, visitabili con visite guidate per sommozzatori più o meno esperti. Siti archeologici di questo tipo si possono ammirare sui fondali nei pressi di Pantelleria, in cui sono sommersi alcuni relitti di navi romane, o sulle coste campane, dove si trova la città romana di Baia, sprofondata sotto il livello del mare in seguito ad eventi di bradisismo.



Immagini del sito archeologico sommerso di Baia.

Ovviamente, la conservazione di beni culturali subacquei non è delle più agevoli. L'ambiente in cui sono posti gli oggetti è quanto di meno controllabile vi sia. E' superfluo dire che il museo sommerso è alla mercè di alghe, molluschi ed altri organismi marini. Ed è proprio per tenere puliti i reperti sommersi della città di Baia che Teodoro Auricchio, direttore dell'Istituto Europeo del Restauro di Ischia, ha pensato di utilizzare un laser subacqueo per eseguire una periodica ablazione delle incrostazioni.

L'isola di Ischia

E' circa da 20-25 anni che la tecnica dell'ablazione laser affianca le pratiche più tradizionali negli interventi di pulitura. Ma fino ad oggi, solo sulla terraferma! Per venire incontro alle esigenze di Auricchio, Leonardo Masotti, presidente del gruppo El.En di Firenze, ha realizzato, insieme al suo team, un laser, leggermente più potente di quelli normalmente utilizzati attualmente nel restauro, dotato di un fascio di fibre ottiche che permettono di lasciare il corpo dello strumento su di una barca e di intervenire nella pulitura direttamente sul fondale marino, fino ad una profondità di circa 12 m.

Un altro dettaglio del sito di Baia.

[Nonostante le mie ricerche, non sono riuscito a scoprire di che tipo di laser si tratta, ma gli strumenti solitamente utilizzati per la pulitura di beni culturali sono del tipo Nd:YAG. Probabilmente per le specifiche tecniche dello strumento si dovrà attendere una pubblicazione dedicata.]

Ma perché si utilizza il laser negli interventi di pulitura? I principali pregi dell'impiego di questa tecnologia sono:

1) Invasività limitata: non si richiede l'uso di sostanze chimiche, né l'apporto di materiali abrasivi. Ciò consente di trattare senza alcun contatto superfici estremamente fragili o fortemente alterate anche prima del consolidamento.

2) Buon livello di controllo: la rimozione dello strato di degrado interessa pochi micron per impulso, quindi si può definire con buona precisione il livello di aprofondimento.

3) Elevata precisione: il processo di pulitura interessa solo l'area illuminata dal fascio laser, che può essere delimitata puntualmente a seconda delle necessità. Inoltre i laser che impiegano fibre ottiche consentono di trattare superfici modellate anche notevolmente complesse e poste a distanza dal corpo dello strumento (su ponteggi o, come nel caso di questo nuovo prototipo, su di un fondale marino!)

4) Buona selettività: il differente assorbimento della radiazione ottica dei laser a stato solido (Nd:YAG) da parte dei materiali in dipendenza del loro colore rende di per sè selettiva l'azione del laser. Infatti, se lo strato di alterazione da rimuovere è di colore più scuro del substrato (come nel caso di una crosta nera su di un marmo), è possibile modulare l'intensità della radiazione in modo tale che questa venga assorbita soltanto finchè non sia stato rimosso tutto lo strato di alterazione. In questo modo il processo è in qualche modo "autolimitante".

Ovviamente, la tecnica dell'ablazione laser possiede anche diverse limitazioni. Queste risiedono principalmente nel micro-trauma meccanico che si infligge alle opere trattate, nella difficoltà di trovare i parametri applicativi ottimali e nel fatto che non sempre si possono trattare tutti i materiali. Infatti, nei casi in cui non ci sia un sufficiente contrasto cromatico fra la patina di alterazione e il supporto o quando si ha a che fare con un materiale poco resistente al riscaldamento, la pulitura con il laser non è facilmente applicabile.

Tornando al laser subacqueo, i primi test eseguiti con tale strumentazione sembrerebbero metterne in luce gli ottimi risultati. Auricchio afferma che "il laser riesce a staccare anche incrostazioni di mezzo centimetro di spessore", mentre Masotti si limita a proporre delle ipotesi sulla sua sorprendente efficacia:

"Probabilmente, l'energia del laser fa dilatare il velo d'acqua posto sotto ai depositi di sali, tanto da provocare la separazione dell'incrostazione dalla superficie sottostante."

Dal canto mio, consiglierei di accogliere tali affermazioni con la dovuta cautela... Prima di conclamare il successo di questa innovazione attenderei qualche conferma sperimentale, magari corredata da una pubblicazione scientifica. Quindi, magari, aspettate prima di guardare negli occhi un'anfora sommersa e dirle:

"Non preoccuparti. Da oggi i tuoi problemi sono finiti."

Non posso comunque negare che la notizia sia piuttosto affascinante...

Per concludere vi segnalo che il suddetto Istituto Europeo del Restauro di Ischia sta organizzando addirittura dei corsi di immersioni subacquee in cui verrà insegnato l'utilizzo di questo nuovo laser. (Ora, non voglio essere maligno a tutti i costi, ma tutto questo entusiasmo per il laser subacqueo sa un po' di campagna pubblicitaria per aumentare le iscrizioni... no?) Comunque, chi volesse cimentarsi nell'impresa potrà davvero dire che con questo laser si pulisce...a fondo!

domenica 4 novembre 2007

41° Anniversario dell'Alluvione di Firenze

Ricorre oggi il 41° Anniversario dell'Alluvione di Firenze. Per chi visse quei giorni, oggi è l'occasione per ricordare l'enorme tragedia che travolse una città, impreparata a fronteggiare un tale evento, ma che fu teatro di una grande prova di solidarietà da parte del mondo intero.

Ma può essere (e, soprattutto, nell'ambito di questo blog) anche l'occasione per rivivere, attraverso le testimonianze di restauratori (allora alle prime esperienze), i problemi che vennero affrontati nel recupero di opere di incredibile valore come il Crocifisso di Cimabue o l'Ultima Cena affrescata da Taddeo Gaddi, entrambi visibili ancora oggi all'interno del Cenacolo di S. Croce.



Fu nell'approcciarsi al restauro del Crocifisso, ormai praticamente illeggibile, che il team di restauratori guidato da Umberto Baldini si inventò un nuovo modo di trattare le lacune pittoriche: l'"astrazione cromatica". Ornella Casazza, allora giovane restauratrice, ed oggi direttrice del Museo degli Argenti di Palazzo Pitti, ricorda:

"Agimmo con un pennellino finissimo e collegammo le parti rimaste in migliori condizioni alle lacune maggiori. Erano tratti debolissimi e finissimi che non dovevano assolutamente urtare l' originale ma condurre l' occhio a cogliere nell' insieme ciò che Cimabue ci voleva trasmettere."

Per cercare di trarre in salvo l'affresco di Taddeo Gaddi, invece, il gruppo di restauratori diretto da Dino Dini decise che l'unica soluzione era quella più drastica: il dipinto andava strappato dalla parete del refettorio. Ma i problemi non erano che iniziati. Infatti, a causa dell'elevata umidità e, soprattutto, della presenza di abbondanti salificazioni, la colla utilizzata per lo strappo non riusciva ad asciugare. Fu proprio in problemi come questo che l'apporto scientifico del chimico Enzo Ferroni si rivelò decisivo. Guido Botticelli, anche lui all'epoca un giovane restauratore, ricorda:

"A questo problema venne in nostro aiuto il Prof. Enzo Ferroni della Facoltà di Chimica dell’Università degli Studi di Firenze e per la prima volta fu allora sperimentato il Tributilfosfato, una sostanza chimicamente inerte nei confronti dei leganti e dei pigmenti, poco solubile in acqua e ad alta penetrazione per capillarità che ci permise di allontanare, per un tempo sufficiente all’esecuzione delle operazioni di stacco, le soluzioni concentrate presenti nel muro consentendo così alla colla di asciugarsi in maniera omogenea."

Per chi fosse interessato ad approfondire la questione relativa all'utilizzo del Tributilfosfato, si consiglia di ricercare l'articolo:

"Ferroni, E., and Dini, D., “Esperienze sul Sequestro di Nitrati con Tributilfosfato per il Distacco e la Conservazione degli Affreschi” Atti della XLI Riunione della SIPS Società Italiana per il Progresso delle Scienze, Siena, 23-27 September 1967, vol. 2, SIPS Ed., Rome, 1968, pp. 919-932."

Queste collaborazioni, queste invenzioni e questi restauri sono, forse, le uniche cose positive che l'Arno ha lasciato a Firenze quando si è ritirato nuovamente all'interno dei suoi argini.

sabato 3 novembre 2007

Haltadefinizione, ovvero quando la fotografia digitale incontra l'opera d'arte

Il nome della società, Hal9000, ai più ricorderà il personaggio artificiale di un famoso film di Stanley Kubrik, ed in effetti la scelta di Luca Ponzio e del suo team non è stata casuale: la Cupola della Basilica di San Gaudenzio a Novara, gli enormi affreschi Vita di Cristo di Gaudenzio Ferrari e Gloria di Sant'Ignazio di Andrea Pozzo sono stati realizzati attraverso un difficoltoso lavoro al computer in seguito alla minuziosa ripresa in alta definizione di ogni piccolo particolare delle tre opere sopra indicate. Ad esse va a sommarsi l'ultima fatica della ditta, L'ultima cena di Leonardo da Vinci, commissionata dalla Soprintendenza per i Beni architettonici di Milano, che consta di 1677 foto unite in un'unica immagine, da quasi 16 miliardi di pixel, interamente disponibile online. La ripresa, avvenuta attraverso un dispositivo di puntamento motorizzato, ha permesso di registrare e rendere visibile a tutti ogni minima crepa presente nell'affresco, tanto che sembra quasi incredibile ciò che si vede al solo 25% della risoluzione totale:


All'interno del sito, nella sezione "conosci" relativa a ciascuna opera vengono riportate varie informazioni sulla vita e le opere dell'autore; in particolare vi segnalo la possibilità di consultare, pagina per pagina, il primo volume originale di Perspectiva Pictorum et Architectorum di Andrea Pozzo.

In definitiva, quando la tecnologia digitale in ogni sua forma (web e fotografia) incontra l'arte ne nasce un modo particolare di conservazione, che, nel caso specifico dell'opera di Leonardo da Vinci, può rappresentare l'unico modo per continuare a fruire di un capolavoro secondo i più irrimediabilmente danneggiato, la cui salvaguardia è da tempo a rischio.

Un paio di links...

Cercando qua e là sui siti dei principali enti che si occupano di ricerca nel campo della conservazione dei beni culturali, mi sono imbattuto in un paio di cose molto carine.

La prima riguarda una dimostrazione interattiva della gestione dei dati derivanti da una misura eseguita con uno scanner iperspettrale... Ecco brevemente di cosa si tratta. Lo scanner iperspettrale è uno strumento, realizzato dall'IFAC-CNR, che permette di eseguire una scansione della superficie di un dipinto, durante la quale, con un'elevatissima frequenza spaziale di campionamento (un'acquisizione ogni 0,1 mm), viene registrato lo spettro di riflettanza nel range del VIS-NIR (visibile-vicino infrarosso). Quello che si ottiene è il così detto "cubo di immagini", cioè un particolare insieme di dati che permette di associare a ciascun punto dell'immagine fotografica di un dipinto il suo spettro di riflettanza.



Sul sito dell'IFAC-CNR, è possibile toccare con mano le interessanti possibilità date da questa tecnica, gestendo in maniera semplice il cubo di immagini relative ad una misura eseguita, a scopo di studio, su di un dipinto di Leonardo da Vinci. Ecco il link:

http://www.ifac.cnr.it/webcubview/demo/leofull.php

Il secondo link che vi consiglio è, forse meno affascinante, ma sicuramente più utile nella pratica (del restauro, intendo...non si tratta di qualcosa che potrà aiutarvi nella vita di tutti i giorni, temo...). Si tratta di un "triangolo di solubilità interattivo" che permette, ad esempio, di calcolare le quantità di solventi da mescolare per ottenere una miscela di una certa polarità, o di controllare se la miscela realizzata sia adatta o meno per la solubilizzazione di una certa sostanza...



Il restauratore che non ha voglia di svolgere dei semplici calcoli, troverà la cosa molto utile...
Il lettore curioso la troverà almeno interessante...
A tutti gli altri sembrerà un'inutile perdita di tempo...! Comunque, ecco il link:

http://www.icr.beniculturali.it/Progetti/trisolv/TriSolv.html

Buon divertimento!

Da adesso in poi, si fa sul serio!

Comunicazione di servizio:

Questi post introduttivi mi sembravano d'obbligo per spiegare ai più chi siamo e di cosa ci occupiamo, ma volevo dare una bella notizia anche a tutti quelli (studenti, ex-studenti, restauratori, scienziati della conservazione) che questo ce l'hanno perfettamente chiaro: da adesso in poi si fa sul serio!

Quindi continuate a seguirci numerosi, perchè a breve seguiranno interventi che si terranno molto meno sul generale, ma entreranno finalmente nel merito di importanti questioni che riguardano il mondo della conservazione dei beni culturali...

E, infine, per dare un tono a questo mero post di transizione, vi lascio citando Daniele Luttazzi:

"Entrando nella Cappella Sistina non ho potuto fare a meno di ammirare il pavimento. Non lo caga mai nessuno!"



(si noti che la battuta ha una certa attinenza col tema del blog...!)

P.S.: E, ovviamente, si inizia a fare sul serio dal prossimo post!

mercoledì 31 ottobre 2007

Corsi di Laurea come Funghi...

Ma chi sono quegli scienziati che hanno smesso di dedicarsi alla ricerca sui massimi sistemi per applicare la loro sapienza allo studio e alla conservazione dei beni culturali? Dagli anni '60 ad oggi ce ne sono stati tanti e, col tempo, sono diventati sempre di più... A questi pionieri della scienza per i beni culturali, il mondo intero dovrebbe riconoscente perchè, con il loro operato, sarà possibile conservare ancora per molti secoli opere d'arte che sono patrimonio culturale di tutti noi.

Certo, alcuni colleghi hanno storto il naso quando il fisico nucleare della stanza accanto ha smesso di cercare (invano!) il bosone di Higgs, per sparare i suoi protoni su di un vaso etrusco...ma se quei protoni gli hanno permesso di scoprire che quel particolare vaso era stato, sì, trovato a Fiesole, ma l'argilla con cui era stato fabbricato proveniva dall'Impruneta (!!), forse il fisico nucleare, alla fine, non ha avuto una cattiva idea a deviare il suo fascio di protoni da quelle che erano le applicazioni della scienza pura (si badi bene che l'episodio è assolutamente ipotetico e le potenzialità della scienza applicata ai beni culturali sono ben maggiori...!)...

Io sono assolutamente di questa opinione, e come me, la pensano in molti, tanto che, all'estero (negli USA, in Francia, in Inghilterra, etc.) col tempo è nata anche una figura professionale, il conservation-scientist, che sarebbe colui che ha studiato diverse discipline scientifiche con la premeditata intenzione di applicarle alla conservazione dei beni culturali... Cavolo! Proprio quello che ci voleva! Una figura professionale che racchiudesse in sè le giuste conoscenze chimiche, fisiche, geologiche, biologiche e che, al contempo, fosse anche in grado di distinguere un olio su tela da un affresco! E se, magari, questo conservation-scientist riuscisse anche nell'arduo compito di far comunicare fra loro il restauratore ed il chimico puro o lo storico dell'arte ed il fisico nucleare puro (perchè dotato delle competenze per comprendere ciò che viene detto da entrambe le parti della barriera spazio-temporale che ancora separa il mondo scientifico da quello umanistico...!), si potrebbe affermare di essere di fronte ad una figura professionale indispensabile!

E in Italia, vi starete chiedendo voi, in questo paese che, a sentire l'UNESCO, conta più beni culturali che abitanti, esiste una figura professionale del genere? Perchè sarebbe davvero utile...
Beh, in Italia, da questo punto di vista, siamo un tantino in ritardo...Il caos sulla definizione delle figure professionali nel mondo della conservazione dei beni culturali è enorme e, al momento, qualche rara figura di conservation-scientist esiste di fatto, ma non è prevista nè tutelata dalla legge! In Italia, perlopiù, ci dobbiamo ancora affidare a quegli scienziati, di formazione pura, che, ad un certo punto della loro carriera, hanno deciso di dedicare la loro attività di ricerca alla conservazione dei beni culturali... E, badate bene, non è che questi signori facciano male il loro lavoro... anzi, tutt'altro! E' solo che, se possedessero una visione più ampia delle problematiche e, magari, avessero studiato appositamente per lavorare nel campo della conservazione e del restauro, magari potrebbero farlo ancora meglio!

Comunque, nonostante il clima di profonda incertezza, intanto, con la riforma universitaria in vigore dal 2002, si è pensato bene di dare vita ad una miriade di corsi di laurea (classe 41 e 12S) che si proponevano di formare, a seconda dell'interpretazione dei singoli atenei, una figura che poteva ricordare proprio il sopra-citato conservation-scientist! E questi corsi, da allora, sono proliferati come funghi, nell'ottica di formare una figura professionale che rappresentasse il trait-d'union fra il restauratore e lo scienziato puro...Ora, visto che a livello legislativo ancora non si è neanche capito bene chi cavolo sia 'sto conservation-scientist, la domanda che sorge spontanea è:

"Ma le centinaia di laureati in questi nuovi corsi di laurea (fra cui si trovano, guarda caso, gli autori di questo blog!) riusciranno a trovare il loro spazio nel mondo della conservazione dei beni culturali o, nè i restauratori (o gli storici dell'arte), nè gli scienziati puri vorranno averci niente a che fare perchè preferiscono continuare a pensare di poter fare a meno l'uno dell'altro e, a maggior ragione, di non avere affatto bisogno di un trait-d'union?!"

Ai posteri l'ardua sentenza!


lunedì 29 ottobre 2007

Una Scienza Nata dal Fango...

Allora, per iniziare ad ingranare con i post su questo blog, bisogna fare un po' di ordine... quindi, partiamo dall'inizio.

Molti si staranno chiedendo "Ma com'è che la scienza entra nelle questioni dell'arte?" Beh, ci entra soprattutto nell'ambito della conservazione e del restauro dei beni culturali...

Ma, sorprendentemente, non è da molto che ciò avviene... E' solo da una quarantina d'anni che gli scienziati hanno iniziato ad applicare sistematicamente le loro conoscenze, le loro tecniche e le loro metodologie al mondo dell'arte... E' solamente dal Novembre del 1966. Prima di allora i contatti fra scienza e conservazione del patrimonio artistico erano stati sporadici e discontinui. Ci sarebbe voluto un cataclisma epocale per far incontrare e costringere a comunicare fra loro chimici, fisici, storici dell'arte, geologi, restauratori, biologi e architetti... e solo allora, forse, sarebbe apparso chiaro a tutti che da questo incontro si potevano trarre degli enormi benefici.


E così, quando, il 4 Novembre del 1966, l'Arno sommerse buona parte di Firenze, seppellendo in un cocktail di fango e nafta una quantità inimmaginabile di opere d'arte di valore inestimabile, l'incontro fra la scienza e l'arte produsse risultati incredibilmente positivi sul fronte del restauro e del recupero di quelle opere. La collaborazione fra chimici del calibro di Enzo Ferroni e restauratori come Dino Dini avviò un sodalizio fra scienza e restauro che, da allora, non ha fatto che rafforzarsi. L'applicazione delle scienze dei materiali al restauro degli oggetti d'arte ha, infatti, permesso di iniziare a concepire la conservazione dei beni culturali con una mentalità decisamente più efficace della precedente, mutuata dalla tradizione artigiana delle botteghe dei restauratori.

Nessuno studioso possiede le conoscenze che hanno un chimico o un geologo per comprendere in quale modo invecchiano le opere d'arte e quali sono i possibili rimedi contro tale invecchiamento, perchè... alla fine, non bisogna dimenticare che anche la Gioconda non è altro che un impasto di olio, sassi sbriciolati e resina steso su di una tavola!