venerdì 21 dicembre 2007

Le ultime dall'Antico Egitto

Per tutti gli appassionati di Egittologia, ecco le ultime novità dall'Antico Egitto:

Sembra che gli Egizi sapessero produrre il vetro già nel XIV secolo prima di Cristo. Mentre in precedenza si era portati a pensare che gli Egizi fossero venuti a conoscenza della tecnologia vetraia solo attraverso i contatti con popoli dell'est, provenienti dalla Siria e dalla Palestina (vedi la storia del vetro), adesso c'è chi ipotizza che, invece, essi fossero già capaci di realizzare manufatti in vetro. Come si è giunti a questa conclusione? Facile.
A Paul Nicholson e Caroline Jackson, archeologi rispettivamente delle Università di Cardiff e di Sheffield, è "bastato" costruire una fedele copia di un'antica fornace egizia che, una volta messa in funzione, ha permesso loro di ottenere del vetro dalla sabbia locale.


Purtroppo non è spiegato chiaramente se la loro fornace rispecchiasse quelle originali solo nella struttura e nei materiali utilizzati o se, addirittura, si sia cercato di tenere conto dei parametri fisico-chimici coinvolti (operazione ovviamente molto difficile, se non addirittura impossibile...), sicuramente molto importanti nella realizzazione del materiale vetroso. Pur riservandomi di continuare ad avere qualche dubbio sulla validità di tali esperimenti, non posso che esprimere la mia ammirazione per questa "archeologia creativa"!

In merito a questo argomento, segnalo i seguenti link:

Le fonti della notizia (Galileo, ScienceDaily, The Cardiff University):

http://www.galileonet.it/news/9260/il-vetro-dei-faraoni

http://www.sciencedaily.com/releases/2007/12/071214094026.htm

http://www.cardiff.ac.uk/news/articles


Cambiando argomento, la BBC ha dato la notizia che un gruppo di ricercatori del British Museum ha chiesto ai radiologi dello University London College Hospital di eseguire una TAC su di una mummia egizia. Il "paziente" in questione era un sacerdote morto 3000 anni fa, avvolto in un panno di lino e racchiuso all'interno di uno splendido sarcofago decorato.


L'utilizzo della complessa strumentazione messa a disposizione dall'ospedale ha permesso di osservare l'interno del sarcofago, raccogliendo oltre 6000 immagini radiografiche da diverse angolazioni che, processate dal computer, sono andate a costituire un'immagine tridimensionale dell'oggetto analizzato. Si è così potuto osservare ciò che Nesperennub (questo era il nome del sacerdote egiziano) indossava come corredo funebre. E si è potuto constatare che questi non godeva di ottima salute: al momento della morte aveva ormai pochi denti e un orribile ascesso. Nonostante tutto, i medici non sono riusciti a risalire alle cause della morte, anche se quel buco nel cranio che è stato individuato non fa pensare niente di buono...

Comunque, non si pensi che gli ospedali siano nuovi a pazienti di questo tipo. Già nel gennaio 2005 la mummia del più famoso Tutankhamon (oggi esposta al pubblico, che ne può osservare il volto e i piedi) è stata sottoposta ad un indagine di questo tipo. E addirittura la polizia scientifica, che vive un momento di gloria sulla scia del successo di CSI, si è occupata di dare un volto alla mummia di Harua I. In collaborazione col Museo Egizio di Torino, è stata eseguita una TAC della mummia; dall'immagine acquisita, poi, con tecniche di modellazione digitale e non, si è cercato di risalire alle fattezze del Faraone.


Insomma, abbiamo capito che il modo più veloce per capire dov'è il reparto radiologia in un ospedale è seguire la barella che trasporta il sarcofago!

giovedì 13 dicembre 2007

L'Attak al tempo dei Romani

Un'equipe di ricercatori tedeschi del Rhineland Historical Mueseum di Bonn ha recentemente reso pubblica la notizia di un'importante scoperta. Mentre il gruppo di studiosi, diretto da Frank Willer, stava cercando di prelevare un micro-frammento metallico da un elmo di epoca romana, una delle foglie di alloro (in argento) che decorvano la calotta (in ferro) si è staccata rivelando la presenza di un adesivo al di sotto di essa.
Willer ha dichiarato:

"E' una sensazionale scoperta ed un clamoroso colpo di fortuna che sia stato possibile ritrovare tracce di tale sostanza su di un elmo vecchio di 2000 anni!"

Senza l'azione del calore prodotto dalla micro-sega utilizzata per il campionamento, probabilmente l'adesivo romano starebbe ancora adempiendo al suo compito, mantenendo incollate la foglia argentea al resto dell'elmo.


Tale elmo proveniva dal sito archeologico di Xanten, sulle rive del Reno, ed era stato sepolto su una sponda del letto del fiume fino al momento del ritrovamento. Secondo gli archeologi tedeschi è stato propio questo il motivo della resistenza dell'adesivo. Sepolto in un ambiente povero di ossigeno, l'elmo non è stato sottoposto ad un degrado tale da inficiare le proprietà adesive della colla.

Colla che, secondo i risultati delle analisi di laboratorio, è risultata essere una miscela composta da:

- bitume
- pece o catrame (*)
- sego di bue
- fuliggine
- polvere di mattoni

(*) [Pece e catrame non sono la stessa cosa; la pece è un derivato del catrame, ed è molto più viscosa. Comunque la composizione di massima è pressoché identica.]

Nella letteratura che ci è pervenuta dall'antichità non c'è traccia di una colla come questa, in grado di incollare due metalli fra loro (anche se sembrerebbe che già l'uomo di Neanderthal abbia utilizzato del bitume come adesivo!), e, proprio per questo motivo, la scoperta assumerebbe una particolare importanza.


I ricercatori tedeschi hanno provato a ricreare la miscela adesiva in laboratorio, ma ancora non ci sono riusciti. Ma Willer (sull'onda dell'entusiasmo post-scoperta) ha dichiarato:

"Quando finalmente riusciremo a ricreare la super-colla, questa potrà tranquillamente competere con i suoi equivalenti moderni. D'altra parte, quale degli adesivi odierni riesce ad incollare per 2000 anni?!"

Ma qual è il segreto di questa, per citare Willer, "super-colla"?

Se andiamo ad osservare la composizione chimica della miscela adesiva, possiamo capire quanto essa sia complessa. Questa è costituita principalmente da idrocarburi ad alto peso molecolare, contenuti sia nella pece che nel bitume, entrambi, in ultima analisi, derivanti dall'alterazione spontanea dei petroli naturali venuti in contatto con l'atmosfera. In tale processo di degrado (una polimerizzazione ossidante), i residui del petrolio vengono trasformati principalmente in idrocarburi policiclici aromatici (IPA) altamente condensati. Il potere adesivo (ed impermeabilizzante) della pece è ben noto (si pensi al calafataggio delle navi) e quello del bitume deve essere analogo data l'analogia fra le composizioni chimiche delle due sostanze.
Il sego di bue, a mio avviso, può svolgere la funzione di plastificante e, almeno in parte, di legante filmogeno, data la presenza, anche se relativamente scarsa, di acidi grassi polinsaturi.
Immagino che la fuliggine e, soprattutto, la polvere di mattoni avessero per lo più la funzione di inerti per conferire all'adesivo "peso" e resistenza al ritiro.

Ovviamente, tutto questo non spiega certo come un adesivo del genere abbia potuto tenere incollati fra loro due metalli per 2000 anni...è probabile che il segreto di questa colla sia svanito per sempre insieme al carpentiere romano che la creò...

Mi raccomando, non esitate a dire la vostra sulla mia "analisi chimica" della colla romana!

A questi link potete trovare la notizia originale:

http://news.independent.co.uk/europe/article3226417.ece

http://newton.corriere.it/PrimoPiano/News/2007/12_Dicembre/10/elmo.shtml

E credo che in queste pagine, tratte dal sito del museo in cui lavorano Willer e soci, si parli di questo argomento o di qualcosa di analogo, ma essendo scritto rigorosamente in tedesco, non ci ho capito assolutamente niente!! Per gli esperti conoscitori della lingua teutonica (o per chi volesse coraggiosamente cimentarsi in una traduzione!), inserisco comunque il link:

http://www.rlmb.lvr.de/museum/forschung/roemische+helme.htm

domenica 9 dicembre 2007

Quota MILLE!!!


Brevissimo post per ringraziare tutti quelli che sono passati da questo blog e che hanno reso possibile il raggiungimento di oltre mille visite nel giro di poco più di un mese!!! Risultato oltre ogni nostra aspettativa, visto anche l'alto numero di visitatori unici assoluti (345!!!). Il passaparola funziona, perciò non smettete di farci pubblicità e, soprattutto, continuate a tornare!!! E commentate, che il blog non è solo di chi lo scrive, ma anche di chi lo legge!!
Grazie ancora, a presto!

Il team di Art&Scienza

Chimica per l'arte: il primo (e forse ultimo) appuntamento con la rubrica di recensione dei libri universitari


Il post che mi appresto a scrivere sarà un po' diverso dai precedenti, ma spero che risulti altrettanto piacevole da leggere, oltre che minimamente utile...
Negli ultimi due mesi e poco meno, quelli intercorsi tra la laurea (la mia e quella dei miei due splendidi compagni di avventura) e il concorso di dottorato, ci siamo trovati ad affrontare un ripasso generale in vista del suddetto impegno. Può sembrare una cosa abbastanza semplice (per alcuni forse superflua) essendo noi freschi di studi, ma vi assicuro che ce ne vuole di pazienza, e soprattutto di forza d'animo, per rimettere insieme tutti i pezzi di cinque anni di esami (in totale dovrebbero essere stati una cinquantina, vero Già?). Durante i miei voli transoceanici per il web, in cui mi perdo anche troppo spesso, la curiosità mi aveva spinto, proprio nei giorni precedenti alla laurea, a dare un'occhiata al sito de La Feltrinelli in cerca di novità editoriali; proprio lì avevo scovato l'uscita di una pubblicazione, dal titolo interessante: "Chimica per l'arte". Ma le poche ricerche in libreria erano risultate un classico buco nell'acqua...

Il caso ha voluto che, pochi giorni dopo, nel corso di un incontro con il nostro correlatore, sia venuto fuori proprio il libro in questione, e che la comoda "copia-omaggio" ricevuta dal suddetto prof. sia finita nelle nostre mani. Dopo averla scorsa brevemente ed aver verificato che, a differenza delle librerie cittadine, la biblioteca di Ateneo era dotata di almeno sei copie, due di esse sono state da noi prese in prestito (non senza difficoltà, visto che quando ti laurei diventi una specie di paria dell'Università, senza diritto alla mensa e agli altri servizi, benchè le tasse siano state pagate fino ad Aprile.. ma questa è un'altra storia!). Ognuno di noi tre era quindi dotato di una copia del suddetto libro e ha avuto modo di scorrerla, di leggerla e di ricavare da essa alcune interessanti informazioni; a seguito del dottorato (e della restituzione delle copie in prestito) è venuto quasi spontaneo provare a parlare (non dico recensire che è troppo ufficiale) di questo strumento che ci ha accompagnato durante lo studio e che rientra nella scarna categoria delle pubblicazioni scientifiche nel campo dei "nostri" amati B.C..

Il libro è diviso in sette capitoli, il primo dei quali è una sorta di introduzione sul degrado chimico di un manufatto e sull'indagine nel campo dei Beni Culturali, con particolare attenzione anche all'etica dell'intervento, ma meno ai prinicipi generali delle tecniche diagnostiche, che vengono elencate velocemente, come forse è giusto in un libro che non nasce come trattato di Chimica Analitica. Di seguito troviamo sei capitoli, ciascuno dei quali dedicato ad una tipologia di materiale diverso: i materiali pittorici, i materiali lapidei, le ceramiche, il vetro, metalli e leghe e i materiali cellulosici. In ciascun capitolo è presente una parte di inquadramento storico dell'impiego del materiale (quella relativa ai materiali pittorici è particolarmente ben fatta, anche se non deve essere semplice comprimere 5000 anni e più di storia in dieci pagine!), seguita da un'analisi delle caratteristiche chimico-fisiche del materiale stesso, a cui si somma una sezione più "applicativa", sia per quanto concerne gli interventi di diagnostica e conservazione del materiale originale che per quanto riguarda l'impiego in interventi di restauro.

L'intento con cui è nato questo libro era quello di unificare le conoscenze di esperti del settore [dei tredici (13!) autori ben 11 sono chimici] per fornire ad uno studente, o ad un operatore professionale del settore, una conoscenza a 360° sui materiali con cui si ha solitamente a che fare nel campo della diagnostica e della conservazione dei Beni Culturali; tale intento risulta sicuramente soddisfatto ma, personalmente, ritengo che il titolo non sia azzeccato: di chimica pura non se ne incontra molta, poche formule e poche reazioni. Forse sarebbe stato più corretto inserire nel titolo la parola "materiali", in maniera tale da mettere in evidenza che il punto nevralgico della pubblicazione sono gli oggetti, e di conseguenza la loro natura, e non la "Chimica" pura. Forse non è chiaro, e forse i miei due colleghi non saranno d'accordo, ma secondo me un titolo come "La chimica dei materiali dell'arte" sarebbe stato perfetto!

A parte la disquisizione sull'appropriatezza del titolo o meno, un difetto tipico di pubblicazioni a più mani [lo sottolineo nuovamente, in questo caso si tratta di tredici autori!] è quello di risultare parecchio eterogeneo a seconda delle sezioni; questo chiaramente infastidisce il lettore, che si trova ad avere a che fare con "linguaggi" diversi passando da un capitolo all'altro. Da segnalare anche la presenza di alcuni refusi, in particolare un bizzarro copia-incolla errato nella parte relativa al SEM, al capitolo 1. Come indicato nella seconda di copertina, il libro è stato realizzato in poco tempo e la presenza di errori è comune a molti testi; credo che in una eventuale seconda edizione essi saranno corretti, grazie anche ai lettori accorti che possono segnalarli sul sito della casa editrice (nella sezione "Segnalazione errori"). Online è disponibile anche il pdf dell'indice.

Finora mi sono limitata ad elencare i nei di Chimica per l'arte, e come abbiamo visto non sono molti e sono, per lo più, individuabili e sopportabili. Il grande pregio, invece, è quello di aver raccolto in poco più di cinquecento pagine il contenuto di almeno sei o sette esami (volendola vedere in termini molto "studenteschi"); la possibilità di ritrovare, a distanza di poche pagine, tante informazioni appartenenti ad ambiti diversi (anche se sempre osservate dal punto di vista chimico, che, in alcuni ambiti, come per i materiali lapidei, è un po' limitativo) è sicuramente un grande vantaggio per uno studente. A seconda poi delle necessità, in alcuni casi le risposte fornite da Chimica per l'arte dovranno essere integrate con quelle reperibili in testi più specifici, poichè, è evidente, un tipo di libro così fatto può risultare, talvolta, troppo poco approfondito (non è il caso della parte relativa ai metalli e alle leghe, che, oltre ad essere molto complicata, è anche molto completa).

In conclusione, se dovessi dare un voto (universitario, si intende, quindi in trentesimi) il candidato Chimica per l'arte, edito da Zanichelli, prenderebbe un ventisette, ottenuto dalla media tra il voto per l'intento (29) e quello per la riuscita (25). E per una volta mi sento professoressa anche io!!! E credo proprio che, nella piccola biblioteca che Michele, Giacomo ed io mettermo su nella nostra stanza da dottorandi (sperando di averne una), una copia di Chimica per l'arte non mancherà - chiaramente quella "rubata" al nostro correlatore della tesi!!!


CHIMICA PER L'ARTE di Campanella, Casoli, Colombini, Marini Bettolo, Matteini, Migneco, Montenero, Nodari, Piccioli, Plossi Zappalà, Portalone, Russo, Sammarino, ed. Zanichelli, 2007, 42 €.

mercoledì 5 dicembre 2007

Per chi volesse emigrare...

Mi sembra una buona idea segnalare un paio di possibilità interessanti per chi fosse propenso ad emigrare in cerca di fortuna all'estero (anche solo per qualche tempo...!).

Esistono sicuramente diverse possibilità; fra queste ne evidenzio un paio:

1) Il progetto EPISCON (European PhD in Science for Conservation).

2) Una intership (12 o 24 mesi) presso l'ICON (Institute of Conservation) londinese.

Il progetto EPISCON nasce grazie ai finanziamenti del progetto Marie Curie (a sua volta facente parte del CORDIS, il Servizio Comunitario di Informazione in Materia di Ricerca e Sviluppo) con il preciso intento di formare "la prima generazione di veri conservation-scientist in Europa", come si può leggere nella homepage del progetto stesso, ospitata all'interno del sito dell'Università di Bologna, coordinatore del PhD. Oltre all'Università di Bologna, partecipano al progetto diversi partner, appartenenti a diversi paesi europei (Ungheria, Romania, Spagna, Olanda, Danimarca, Grecia), l'Università di Perugia e l'ICVbc (Istituto per la Conservazione e la Valorizzazione dei Beni Culturali, facente parte del CNR). Come collaboratori esterni, invece, partecipano anche ICR e OPD (insomma, non rimane fuori proprio nessuno!). Ora, se avete perso il filo del discorso, non preoccupatevi: è normale! Anzi, più ci si addentra nei siti di questi enti e progetti, più si tende a perdere l'orientamento...!


Comunque, per riassumere in soldoni quello di cui si sta parlando, il progetto EPISCON offre a 16 giovani laureati la possibilità di svolgere 6 mesi di pre-corsi intensivi presso il campus dell'Università di Bologna-Ravenna ed i seguenti 2 anni e mezzo presso uno degli enti che partecipano al progetto stesso. Se ho capito bene, inoltre, verrà effettuato un tentativo di far riconoscere la partecipazione al progetto come un dottorato di ricerca valido nel paese di provenienza del soggetto in questione. Per tutte le ulteriori informazioni, vi rimando al (confuso) sito del progetto:


La seconda segnalazione, come ho già detto, riguarda l'Institute of Conservation inglese (con sede nel cuore di Londra, presso il London Bridge!). Purtroppo, in questo caso la possibilità di presentare una domanda di ammissione scadeva il 30 Novembre, quindi mi scuso per non averne parlato prima, ma non potendo escludere la possibilità che l'anno prossimo l'Istituto proponga nuovamente tale iniziativa, ne parlo comunque! Vediamo di cosa si tratta.

L'ICON offriva la possibilità di eseguire uno stage di 12 mesi in Scienza della Conservazione, pagato 14500 Sterline (20718 Euro, cioè più di 1700 Euro al mese, alla facciaccia dei dottorandi italiani!) tramite fondi stanziati dal Tate Britain, presso lo stesso Tate. Inoltre, accennava alla possibilità di prolungare lo stage di 12 ulteriori mesi in caso di presenza di fondi sufficienti. Anche in questo caso è davvero poco immediato capire quali requisiti siano necessari per fare domanda e che cosa si vada, poi, a fare all'atto pratico. A chi è interessato, consiglio vivamente di addentrarsi nella giungla virtuale del sito dell'ICON:


Un'ultima cosa che mi sembra di aver capito rovistando fra i meandri di quel sito è questa: l'ICON offre anche la possibilità di svolgere uno stage più rivolto al restauro pratico che alla scienza della conservazione, quindi se qualcuno fosse più interessato a questo aspetto, gli consiglio di studiarsi bene queste pagine. Sembra infatti, che grazie a 28 pences per ogni Sterlina giocata alla Lotteria inglese, l'Heritage Lottery Fund abbia raccolto 1 milione di Sterline da devolvere all'ICON affinchè, da qui al 2009, paghi delle interships per la formazione di giovani conservatori (fino a 17 all'anno).

Insomma, tenete gli occhi bene aperti, perché là fuori di opportunità ce ne sono...