domenica 16 marzo 2008

Universi paralleli

Ho navigato un po' per la rete in cerca di qualche notizia succulenta da riportare sulle pagine di questo blog, ma non ho trovato niente che mi sembrasse degno di nota...

Ho deciso, allora, di lasciarmi scappare qualche "riflessione ad alta voce"... così, per vedere se ne nasce una bella discussione fruttifera (o anche del tutto inutile, ma pur sempre interessante!) con i lettori di Art&Scienza...

Ho sempre pensato che il corso di laurea che ci ha formati (e con "ci", intendo sicuramente noi del team di Art&Scienza, ma anche, suppongo, la maggior parte di voi, che ci seguite su questo blog!) fosse nato dall'esigenza di creare un ponte, un punto di contatto fra due realtà che correvano su due binari distinti: il mondo della conservazione e del restauro dei beni culturali da una parte, e il mondo della ricerca scientifica applicata ai beni culturali. E più mi sono addentrato negli argomenti del corso di laurea, più ho compreso che mi trovavo davvero fra due universi paralleli, separati da un abisso sancito dal diverso percorso culturale che porta alla formazione delle rispettive figure professionali. Ma quanto gli abitanti dei due universi sentivano realmente l'esigenza di un punto di contatto? Inizialmente pensavo che il bisogno fosse reale; che entrambe le parti desiderassero capirsi meglio l'una con l'altra. Bene, su questo inizio ad avere i miei dubbi...

Devo dire, innanzitutto, che io già mi sentivo, (per l'impostazione del corso di laurea di Firenze) e mi ci sento sempre più (con l'inizio del dottorato), molto più vicino alla scienza della conservazione che al mondo del restauro pratico ed ho quasi sempre avuto a che fare solo con la realtà della ricerca universitaria. Mi accorgo, quindi, di non avere praticamente mai mosso un passo in quello che è il "mondo reale", il mondo di coloro che stanno in prima linea nella conservazione delle opere d'arte, che ci mettono fisicamente le mani.

Comunque, nonostante la mia visione, per così dire, un po' parziale (nel senso di "non del tutto completa", ma anche nel senso di "più tendente a simpatizzare per una delle due parti"...) della questione, l'impressione che ho è quella di un mondo scientifico che cerca di convincere un riluttante mondo del restauro pratico della necessità che quest'ultimo avrebbe dell'aiuto del primo. In soldoni, mi sembra che la situazione possa essere riassunta così:

"Io, scienziato, cerco di convincere te, restauratore, che quello che fai da secoli nello stesso modo non sempre va bene. Da oggi sarebbe meglio che tu cominciassi a consultare prima me e quello che traggo dai risultati delle mie analisi..."

Dal canto mio, non posso che essere daccordo con il punto di vista dello scienziato (il mondo della conservazione dei beni culturali avrebbe indubbiamente bisogno di iniziare ad avvicinarsi ai problemi con un approccio più scientificamente corretto - ne deriverebbero dei vantaggi sia per le opere, che per gli operatori), ma riesco a comprendere perfettamente anche la diffidenza del restauratore nell'accettare l'intrusione scientifica...


Insomma, in una realtà in cui il restauro è un'attività ancora molto legata all'artigianato delle botteghe di un tempo (stando, a onor del vero, a quel poco che ho potuto vedere e sentir raccontare), c'è posto per la scienza?

Già che ci sono, io mi rispondo anche:

"Dovrebbe esserci e, di conseguenza, il posto andrebbe trovato. Magari non necessariamente nell'ambito della diagnosi preliminare a qualsiasi intervento di restauro (sono daccordo col fatto che spesso basti l'esperienza del restauratore), ma sicuramente nell'ambito dello studio dei materiali, dei fattori di degrado e di tutto ciò che, se conosciuto a livello chimico-fisico (e non solo fenomenologico!), può limitare al minimo l'intervento di recupero sull'opera e favorire le operazioni atte alla conservazione ottimale degli oggetti d'arte."

Detto questo, la parola passa a chiunque abbia un'idea, un parere, uno straccio di opinione da esprimere sull'argomento. Di qualsiasi universo parallelo facciate parte... Si apra il dibattito!

2 commenti:

informaticaapplicata ha detto...

Non è un problemino da poco e non è da poco che se ne discute. La nascita dell'ICR alla fine degli anni '30 e lo sviluppo, negli anni '60, dell'OPD sono, credo, una risposta (una volta tanto proveniente dal settore pubblico a questa più che separazione direi incapacità di sviluppare un patrimonioo linguistico ed una metodologia comune.
Sul saggio introduttivo al numero 5 del Bollettino dell'ICR dedicato alla documentazione grafica e da me curato (assieme a Francesca Piquè del GCI) tentavo di percorrere la storia di questo difficile rapporto (usiamo pure la stantia dicotomia umanisti/scientifici) e la diffidenza (ma poi in fin dei conti la sostanziale fiducia) che lo stesso Brandi nutriva nei confronti di un approccio apodittico di protagonisti del mondo della cultura scientifica che talvolta sembra aver caratterizzato alcuni settori del mondo scientifico. La nascita delle facoltà di conservazione nasce proprio per eliminare questa incapacità di dialogo, per sviluppare un territorio comune, una comune metodologia.
ICR e OPD gestiscono in comene questo patrimonio. Alcuni caso di collaborazione virtuosa sono stati raccontati con dovizia di particolari e questa capacità di collaborazione è la "cifra stilistica" dei due istituti.

Sembra un discorso fumoso e per questo questa puntata si arresta quì.

Francesco de Virgilio ha detto...

Quando ti chiedi (forse sarebbe più corretto "ci" chiediamo) se c'è posto per la Scienza nel lavoro del restauratore, andrebbe anche notato che -purtroppo- la strumentazione di cui necessita un Diagnosta (lasciatemi passare il termine) non è proprio alla portata di tutti, e il povero diagnosta in questione, specie se giovane, deve ovviamente tentare di vivere con quel che guadagna. Ne deriva a mio parere un costo alto, spesso proibitivo, delle analisi, che impedisce al nostro scienziato di inserirsi adeguatamente nel mercato.

A questo andrebbe aggiunto che, sebbene forse il centro-nord riesca a gestire con più cura il proprio patrimonio artistico, i fondi devoluti alla tutela di beni d'arte non sono equamente distribuiti in tutta la Penisola, e le opportunità (oltre che, purtroppo, la cultura) non sono le stesse per tutti i luoghi d'Italia o per tutte le nazioni d'Europa.

Come ha precisato giancky, la nascita del Corso di Laurea in Diagnostica costituisce un fondamentale passo avanti nella formazione, ma a mio parere l'altra gamba, quella nel mondo del lavoro, dovrebbe contribuire a far camminare la prima. Formare giovani che non abbiano un orizzonte lavorativo è un grave fallo.

In definitiva, credo che l'unica soluzione si possa localizzare nel tentare di aprire la strada a nuove generazioni di Diagnosti, sensibilizzando da un lato la pubblica amministrazione e dall'altro i privati (parlo di architetti, ingegneri e studi privati).

Francesco