sabato 10 novembre 2007

Copiare o non copiare...? Questo è il problema! Ce lo spiega Antonio Paolucci...

Navigando per il web, mi sono imbattuto in un'intervista rilasciata a Rai Educational da Antonio Paolucci, ex soprintendente per il Polo Museale di Firenze e attualmente uno dei quattro esperti incaricati dal Ministro Francesco Rutelli di affiancare Salvatore Settis nel coordinare i lavori del Consiglio Superiore per i Beni Culturali e Paesaggistici.

Antonio Paolucci


Le domande, scelte fra le migliori inviate dagli ascoltatori, hanno permesso a Paolucci di gettare diversi spunti molto interessanti su alcune delle questioni chiave della cultura del restauro. Per chi fosse interessato all'intervista integrale, ecco il link a cui potete trovarla:

http://www.educational.rai.it/mat/ss/restauro1.asp

Le risposte del professore hanno toccato svariati argomenti, fra cui la questione della copia dell'opera d'arte, trattata in modo completamente differente dalla cultura Occidentale rispetto a quella Orientale.

Di seguito, ho cercato di riassumere ed adattare in forma di breve discorso alcune delle risposte date da Paolucci in merito a questo argomento per cercare di chiarire quale sia il suo pensiero:

"Non c’è dubbio che la cultura del restauro sia un fenomeno “occidentale”. Già in un Oriente culturalmente vicino a noi, come può essere la Russia, si trovano frequentemente cupole del ‘600 che, se cadono in rovina, vengono semplicemente ricostruite ex novo. Nell'Estremo Oriente, in Cina o in Giappone, è frequente trovare addirittura delle riproduzioni, assolutamente fedeli all'originale, di templi o di palazzi o di edifici che risalgono alla dinastia Ming o Chang, di dieci o quindici secoli fa. Ed è perfettamente noto che quando tali monumenti cadevano in rovina venivano semplicemente ricostruiti esattamente com'erano.

Quindi per l'Oriente conta molto di più la conservazione dell'immagine (del concetto, dell’idea), mentre per noi occidentali - e questo fa parte del nostro individualismo umanistico - conta invece, la cosa in sé, l’oggetto materico. C’è proprio una diversa concezione dell’opera d’arte che trova le sue ragioni profonde in un discorso di tipo antropologico, e, proprio per questo, è impossibile stabilire quale impostazione sia giusta o sbagliata.

A differenza dei Giapponesi o dei Cinesi, noi tollereremmo molto male l'idea di una città popolata da copie di monumenti: l'idea è fastidiosa perché offende il nostro senso della storia. È possibile abitare in una città in cui tutte le sculture visibili, che dovrebbero essere antiche, sono finte? Va bene per il Marco Aurelio, di cui è stato necessario esporre una copia -, ma cosa accadrebbe se tutte le sculture di Roma, la Fontana di Trevi, la fontana di Piazza di Spagna, i cavalli del Quirinale e lo stesso Colosseo fossero una copia? Non avremmo l'impressione di vivere in una specie di Disneyland? Proprio per tale motivo si fanno delle copie solo quando non si possono non farle. Io ho combattuto una dura e difficile battaglia, rischiando di persona, per far sì che il Perseo di Benvenuto Cellini in bronzo rimanesse nella Loggia dell'Orcagna. Perché poteva rimanerci, perché con opportuni controlli, con verifiche ogni tanto, con provvedimenti efficaci poteva vivere e vivere bene pur rimanendo all'aperto.



Però io stesso sono costretto a rimuovere dalla Loggia dell'Orcagna qui a Firenze in Piazza della Signoria il Ratto delle Sabine di Giambologna, una delle sculture più famose del mondo, perché mi sono reso conto che se sta lì altri venti, trent'anni, probabilmente non ci sarà più: la rovina sarà a quel punto irreversibile. E allora ecco che il restauratore, come il medico, deve sapere che non c'è la malattia, ma c'è il malato; che esistono tante diagnosi quanti sono i malati, e tante terapie quante sono le diagnosi. Questo è l'aspetto pragmatico, "opportunistico", del nostro mestiere.

Io vorrei una città dove le sculture siano tutte al loro posto, siano quelle originali. Dove l'atmosfera sia 'affidabile', nel senso che l'inquinamento non sia eccessivo, le piogge non siano acide. Dove i cittadini e i turisti si comportino civilmente, senza atti di vandalismo. Dove, come è sempre stato nelle città italiane, uno possa incontrare il Marco Aurelio, Giambologna e Donatello come se incontrasse dei vecchi amici, quasi senza farci caso, tanto fanno parte della sua vita, del paesaggio, del contesto urbano. Questa è la città d'arte che io voglio. Ma mi rendo conto che oggi mantenerla è molto difficile."


Devo ammettere che il tema che mi sta molto a cuore e, sulla questione delle copie, ho una mia personale idea, che concorda quasi del tutto con il pensiero di Paolucci, ma tende ad estremizzarne le conclusioni.

Se Paolucci afferma che le copie "si fanno solo quando è impossibile non farle", pena la perdita irrimediabile dell'opera, io penso (e so che quest'idea risulterà impopolare) che sia meglio perdere l'opera che esporre una copia (un falso!) e decontestualizzare l'originale. L'opera d'arte deve essere vissuta dalla gente. Un'opera come il David di Michelangelo è stata posta davanti al Palazzo della Signoria con un preciso intento comunicativo. Esporre in suo luogo una copia, anche se per per garantire la conservazione del capolavoro, è una negazione, o, almeno, un'alterazione di quell'intento.
E' come (con le dovute relativizzazioni) se un fan degli U2 andasse ad assistere al concerto della sua band del cuore e sul palco trovasse, invece degli U2, un'ottima cover band (identica in tutto e per tutto agli U2), assoldata dal manager della band irlandese, il quale temeva che, data la temperatura rigida, Bono Vox potesse prendersi un bel mal di gola. Il manager avrebbe dovuto invece accettare il fatto che Bono, per esprimere la sua arte, potesse anche logorarsi l'ugola. (Magari dovrebbe smetterla di organizzare concerti a nord del circolo polare artico...!)

E nello stesso modo, il soprintendente di turno dovrebbe rassegnarsi al fatto che il David, per comunicare il messaggio michelangiolesco, un giorno debba essere necessariamente ridotto in polvere dall'acido solforico presente in atmosfera. E' una questione di entropia e non può farci nulla. Al limite, può cercare di rallentare questo processo, lottando (come dice giustamente Paolucci) affinchè i livelli di inquinamento urbano rientrino nella norma e monitorando le condizioni chimico-fisiche del micro-ambiente in cui si trova l'opera. E, utilizzando una filosofia conservativa di vena orientale, dovrebbe cercare di conservare "l'idea" dell'opera (sotto forma di documentazione di tutti i tipi; fotografica, scientifica, storiografica, etc.). Perché un giorno quell'opera, come tutte le cose su questa terra, non ci sarà più.

E se proprio si vuole ingabbiare in un museo una statua pensata per affrontare le intemperie dell'aria aperta, allora che ci venga messa la copia, cosicchè, nel museo, i visitatori possano ricordare come l'opera doveva apparire da nuova, mentre la gente per strada possa sentire l'animo dell'artista attraverso i resti della sua opera originale!

1 commento:

Anonimo ha detto...

Interessante questione...non so se essere completamente d'accordo con una presa di posizione così drastica, ma ti dico una cosa:sei il migliore!!
M.P.